di Domenico Bilotti
I primi giorni di lockdown, nel mese di Marzo, hanno dimostrato che alcune attività di produzione non potevano andare in sosta, nemmeno per ragioni di salute individuale e collettiva. Tra esse, con relativa sorpresa, si è scoperto vi fosse l’industria bellica: il nostro Paese, nel circuito dell’equipaggiamento e del mercato di armi, ha da tempo un ruolo e una posizione, forse meno cristallina di quanto restituiscano i suoi dati e i suoi numeri. Eppure la pandemia aveva per un istante fatto lumeggiare la speranza di un cessate il fuoco minimo, per motivi di salute, in ogni parte del globo. Così non è stato, anche perché tante misure di contenimento sono state più apparenti che reali: sono continuati a morire gli sfollati di Gaza, i senza dimora di Hart Island a New York, i seviziati dai torturatori dei regimi militari africani, gli anonimi brasiliani anonimi per sempre (in vita, nelle favelas; in morte, nelle fosse comuni).
Anche il frequente accostamento di immagine dei lutti da Covid-19 a quelli di una guerra, così poco messo a fuoco, cela in realtà una percezione sociale diffusa: la percezione della guerra nel nostro vissuto comune, cioè, non è più un’esperienza circostanziabile, contingente, netta, definita. È piuttosto divenuta una magmatica sensazione di cui si ammette l’esistenza il più possibile lontano da sé: si materializza in misconosciute repubbliche orientali clandestine che dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, in Stati equatoriali di cui non ricordiamo il nome e forse hanno il doppio o il triplo dei nostri abitanti, in allarmanti crociate estemporanee contro gli Stati che, alla vulgata, difendono il terrorismo (che sia la Libia o la Siria, l’Iraq o l’Afghanistan).
Il pontefice romano Bergoglio, che è stato in questi giorni emozionante rivedere affacciato in San Pietro (emozionante perché emozionato; la gioia piccola e grande di un quotidiano volersi rivedere alla luce), lo ha detto molte volte e dall’inizio del suo magistero sempre di più. La guerra non è più l’esperienza antropologica disciplinata dalla grande costruzione giuridica del diritto internazionale Otto e Novecentesco. È, semplificava e bene Francesco, una guerra mondiale “a pezzettini”: un disprezzo parcellizzato di vita umana, che si riduce a “operazioni” non a “battaglie”, a “interventi” non a “stragi”. A democrazie da esportare o a socialismi da mantenere o a fondamentalismi da assicurare.
Il Nobel portoghese José Saramago ammoniva: se perdi l’origine delle cose esse ti sembreranno più grandi o più piccole in base a quanto ne sarai coinvolto. Al nostro Occidente quelle guerre in casa (ad esempio: sulla porta balcanica, dove è giusto invece continuare a parlare d’Europa, di pace, di diritti) sono spesso apparse troppo piccole, solo per la paura di assumersene in fondo la sua quota di responsabilità. Di certo la guerra in una cosa somiglia all’abuso di potere: non ha paura della piazza o, se ne ha, le dimostra all’opposto disprezzo. Che siano giovanissimi studenti a Hong Kong, bianchi e neri dei sobborghi a Minneapolis, mezzo miliardo di ragazzi per strada nel 2003 contro la guerra in Iraq.
Studiate la guerra se non volete farla riaccadere, diceva Pertini in un discorso agli studenti. Aggiungiamo: studiamo la guerra nelle conseguenze deleterie che produce, anche sulle pandemie. Senza la vita precaria, lurida, svilita, della trincea del 1918 … l’influenza spagnola avrebbe ucciso di meno e per meno tempo, perché le sarebbe venuto a mancare uno dei primi vettori di contagio. Studiamo la guerra e le cause che la precedono. Lo storico americano Howard Zinn notò, in un saggio di ormai quattro decenni addietro, l’impressionante vicinanza tra le vicende della “guerra” e della “nazione” nella cultura e nel diritto moderni. Sol che la violenta crisi della seconda, non sembra aver molto nuociuto alla prima. Chissà per quanto tempo ancora non ci basterà leggere un Péguy, un Ungaretti, un Dossetti … per farne a meno per sempre.