di Luigi Mariano Guzzo
Io sto dalla parte di don Giacomo Panizza. Sto dalla parte di questo sacerdote con un passato da metalmeccanico, originario della Lombardia, che nel 1976 ha fondato a Lamezia Terme la Comunità “Progetto Sud” e qui, in Calabria, ha conosciuto “purgatorio, inferno e paradiso” (come il titolo di un suo libro pubblicato nel 2011 da Feltrinelli). E tutti, davvero tutti, non possiamo che scegliere questa parte. Senza scappatoie, senza alibi, senza doppi giochi. Perché è la parte giusta, quella della legalità, del rispetto delle regole, dell’inviolabilità della persona umana.
Gli (ennesimi) atti intimidatori alla Comunità Progetto Sud feriscono tutti noi, nelle nostre coscienze di donne e di uomini onesti e liberi. Attentano alla dignità del nostro popolo, alla libertà, alla storia, alla cultura. E quindi non è più il tempo di girarci altrove, di fare finta di nulla, di voltare le spalle, dinnanzi alle situazioni di sopraffazione, di violenza, di omertà che incancreniscono i nostri territori. È l’ora di un impegno, un impegno collettivo, un impegno di tutti per una liberazione integrale, autentica, delle nostre comunità dalla morsa della criminalità organizzata, delle mafie, dei colletti bianchi, di chi innesca processi corruttivi a discapito del bene comune. Insomma, di chi persegue la strada del male e così facendo – come ebbe a dire Papa Francesco a Sibari il 21 giugno 2014 – si pone da sé fuori dalla comunione della Chiesa. Il Vangelo è inconciliabile con la pseudo-cultura delle mafie e delle consorterie deviate: mafiosi e corruttori/corrotti non possono definirsi cristiani. È ormai, questo, un punto acquisito, di non ritorno, nella teologia cattolica.
Il sogno è quello di una grande stagione della speranza per un Sud d’Italia (e del mondo), piegato e mortificato dalle espressioni malavitose e da decenni di politiche clientelari. Già, dobbiamo riappropriarci della speranza. Di quella stessa speranza che è stata tolta, depredata, scarnificata, soprattutto – ed è la cosa più grave – dall’orizzonte delle giovani generazioni, tentando di spegnere il fuoco delle energie migliori. Incrementare i posti di lavoro, scongiurare l’emorragia dei giovani, evitare lo spopolamento dei centri urbani interni rappresentano priorità non più rinviabili.
L’auspicio del presidente della Conferenza Episcopale Calabra mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, all’indomani degli atti dimostrativi contro la Comunità di don Giacomo, non può cadere nel vuoto: «istituzioni, società civile, forze sociali e produttive» devono «unirsi sempre più sotto la comune bandiera dell’impegno contro la ‘ndrangheta, la corruzione ed ogni forma di sfruttamento e colonizzazione della terra di Calabria». Perché, continua l’arcivescovo Bertolone, «solo insieme, tutti insieme, sconfiggeremo le mafie, per l’edificazione di un regno di giustizia, di pace e di amore secondo il cuore di Dio». È importante ribadire l’importante sforzo di contrasto alla criminalità organizzata che la Chiesa calabrese sta portando avanti attraverso una capillare formazione dei sacerdoti e dei fedeli, strumenti normativi e orientamenti pastorali. È una Chiesa che denuncia e si fa profezia di un Regno di giustizia e di amore, sull’esempio di testimoni che hanno trovato il martirio per la violenza mafiosa, come don Pino Puglisi o il giudice Rosario Livatino (postulatore di entrambi i processi di canonizzazione è mons. Bertolone, i cui studi si sono rivelati necessari per il riconoscimento ecclesiale del martirio).
Ed è vero: da soli non si va da nessuna parte. E, soprattutto, chi è nel mirino delle organizzazioni criminali non può essere lasciato da solo. Da queste colonne vogliamo esprimere la nostra vicinanza e la nostra solidarietà a don Panizza, ai suoi collaboratori e, insieme a loro, a quanti ogni giorno combattono a testa alta la ’ndrangheta e le consorterie deviate. Lo si gridi gran voce (come si fa, redazionalmente, utilizzando le lettere maiuscole), e mi sia consentito modificare la prima persona singolare (l’io), utilizzata all’inizio, con la prima persona plurale (il noi), in quanto è dal “noi” che passa la speranza: NON ABBIAMO PAURA. DON GIACOMO NON SEI DA SOLO.