di Domenico Bilotti
Quando un ministro di uno Stato costituzionale di diritto afferma che il distanziamento sociale è l’unica forma di prevenzione dal contagio, la stessa frase implica un pericoloso rovesciamento semantico: non si sopravvive al contatto con l’essere umano e con la vita. In un’epidemia, come scriveva Defoe in un bel libro sulla grande pestilenza londinese, la nostra mortalità dipende dalla vicinanza a chi è malato. Più prosaicamente, confidare soltanto nella distanza fisica tra le persone come strumento per allentare l’emergenza significa ammettere che la scienza politica e la scienza dell’amministrazione sono nude fintantoché anche la scienza medica è costretta dall’incalzare degli eventi a brancolare nel buio, almeno quanto alle possibilità più efficaci e risolutive.
Non è meno sintomatico che un ex ministro di quello stesso Stato costituzionale di diritto annunci di voler far riaprire le Chiese per le celebrazioni pasquali. Le Chiese non sono state chiuse, la preghiera individuale non è mai stata inibita; si è cercato, con una rete anche troppo lasca di interdizione, di evitare gli assembramenti tipici dei riti associati. Nelle democrazie odierne, anche gli atei si sono battuti per la libertà religiosa di tutti e hanno tematizzato la necessità che si potesse vivere in libertà e, se del caso, in collettività la partecipazione cultuale. Le comunità e gli individui, come ricorda la Dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, si rivolgono alle religioni perché vi credono, perché ne attendono conforto, perché vi cercano orientamenti e guida. È invece chiaramente un fuor d’opera invocare, contro lo stesso volere dei fedeli e dei loro pastori, la programmazione di massa di funzioni religiose, in ambienti chiusi, affollati, impossibilitati a garantire la profilassi minima del non contagio. Si badi, peraltro, che l’invito a questa presunta e del tutto atecnica riapertura è chiaramente rivolto a una e una sola fede, anche se proprio questa da decenni vive alcuni dei suoi momenti più intensi proprio rivolgendosi alle altre culture e alle altre esperienze religiose. Il farmacista persiano ibn Hayyan avrebbe detto che esistono veleni pericolosi che credono di essere farmaci utili.
I momenti che ancora e forse non a breve non riusciamo a lasciarci alle spalle evidenziano, insomma, ancora una volta la capacità del potere politico di calamitare i fenomeni di attrazione sociale per farne non una proposta dialettica, ma un vettore di propaganda e di consenso elettorale. C’è molto di nuovo, verosimilmente, in quello che è chiesto come garanzia di sicurezza e di salute collettiva. Le sindromi virali acute, come implacabili parassiti, si nutrono del contatto umano. Non è un caso che in meno di due settimane una città come Milano abbia scavalcato le sofferenti, e più piccole, città di Brescia e di Bergamo per numero di contagiati. Non è un caso che New York sia divenuta la città più colpita dell’intero pianeta. Ci sono relazioni che non si possono fermare. Quelle dei servizi essenziali, quelle di cura, quelle più specificamente relative alle forniture farmacologiche e alimentari. E quelle su cui le nostre economie hanno poggiato il loro tentativo di resistere alla fine dello Stato sociale negli ultimi venticinque anni: le attività ludiche, il pendolarismo lavorativo, il terziario avanzato non riproducibile da casa. Il capitalismo, con tutti i limiti della sua proposta di regolamentazione della vita umana tutta, aveva e ha dalla sua un elemento importante: abbisogna di libertà, in particolar modo (ma non solo) di libertà contrattuale. Per controllare questa libertà, si è servito della repressione degli spazi sociali e della suggestione dei bisogni civili. Ha saputo difendersi, cioè, con le armi e con le manette, e nel mentre ha additato il modello di vita che riteneva più conveniente. Purtroppo il corona-virus sta dimostrandoci che la fase che ci attende, o che è forse già iniziata, non è migliore. Fa anzi piazza pulita di tutto quello che non è immediatamente riconducibile alla sua messa a valore, mescolando ovviamente strumenti propagandistici già noti. La segregazione abitativa è venduta come indice di sicurezza e come scelta di riposo; il lavoro degarantito, non pagato, svolto senza nemmeno l’utilizzo di mezzi di produzione non propri, è smart, è soft, è domestico e soffice.
Chiunque esuli dal perimetro del solito non è più nascosto come ieri l’altro. È addirittura portato in braccio al suo patibolo o soavemente sacrificato come sua prima linea (basti pensare alla rapida diffusione dei contagi nei dormitori per senzacasa, tra le prostitute su strada, tra i detenuti e tra le forze armate, tra i medici e tutte le professionalità utilizzate negli ospedali).
I corifei del senso comune diretto da chi lo usa ci suggeriscono che è solo una fase nuova e che finalmente tramite essa stiamo scoprendo l’uomo. Non sappiamo se farci venire in mente Rousseau che quest’uomo vede nascer libero e finire ovunque in catene o il missionario e poeta Raoul Follereau: chi è incapace di trasmettere libertà agli altri, è indegno di possederla.
