di Domenico Bilotti
Confucio istruiva il gentiluomo nella società cinese del sesto secolo avanti Cristo. Mai occuparsi di spiriti: una persona assennata ha così tante questioni cui badare responsabilmente che abbandonarsi a immaginare l’ultraterreno lo distrarrebbe irrimediabilmente. Nel presente italiano sembra allora oggi esserci negato di poterci dedicare alla virtù, visto che ogni giorno oltre sessantamila fantasmi provano a bussare alle porte della nostra attenzione. Non sono peraltro identità incorporee, bensì indistinti e invisibili dannati in carne e ossa: oltre sessantamila detenuti in un piano di allocazione formale delle carceri tarato (con una certa generosità) per circa cinquantamila ristretti. Potrebbe capitarci di credere che nelle carceri siano sbattuti i criminali più efferati, i seviziatori di minori, gli usurpatori della cosa pubblica, gli assassini condannati oltre ogni ragionevole dubbio.
Basta metterci un piede, in uno qualsiasi degli istituti di pena presenti sul territorio dello Stato, per rendersi conto che la percezione spesso guidata dai media è una cosa e la vivente realtà giuridica ben altra.
Nelle carceri italiane, ci sono, accanto certo a soggetti giudicati colpevoli di reati molto gravi, persone in attesa di giudizio (mai condannate in nessun grado); persone che non hanno ricevuto condanne definitive in merito al titolo di reato per cui sono o devono essere processate; stranieri; madri; soggetti affetti da patologie croniche, dipendenze, disagio psichico; autori di reati di modesta offensività sia sociale che patrimoniale. Accanto a loro ci sono, e talvolta le categorie coincidono, detenuti per i quali è stata pronunciata, giacché prevista per legge, l’ostatività: la certezza, cioè, di non accedere ad alcuna misura alternativa. A questo proposito, forse si devono precisare due aspetti che la nostra rancorosa ansia di veder liberi altri esseri umani ha messo in parentesi.
La sentenza della Corte costituzionale, n. 253/2019, non ha rimesso in libertà nessuno; ha solo reiterato applicativamente un principio sancito nella nostra Costituzione: non può essere tolto il diritto ad avere un giudizio in un procedimento. L’esecuzione della pena è un procedimento e allora, giudizio per giudizio, va stabilito se quel detenuto altrimenti “ostativo” possa o non possa accedere alle misure alternative. Queste ultime, non poi così secondariamente, non consistono in viaggi premio, in biglietti della lotteria, in violazioni della sentenza di condanna: sono restrizioni appena più circostanziate della medesima libertà personale.
È curioso come sia spesso stata, negli ultimi due decenni, la gerarchia ecclesiastica a perorare, almeno nella percezione dell’opinione pubblica, l’esigenza di arrivare a provvedimenti di clemenza e a rallentare la spirale onnivora della carcerazione in Italia. Si, il carcere in Italia è causa di morte: lo sanno gli agenti di polizia penitenziaria che esasperati dal complesso vissuto murario si uccidono; lo sanno i detenuti che subiscono aggressioni e violenze da soggetti privati e pubblici; lo sanno ancor più i detenuti qualunque, i detenuti “anonimi”, che, magari mai sopra le righe, si trovano a morire per malattie che il mondo “di dentro” non sa gestire e che quello “di fuori” – il tempo di una terapia, di una cura, di un intervento – potrebbe risolvere.
Papa Francesco sta spendendosi non banalmente per la questione penitenziaria, lungo due assi. Sul piano teologico e magisteriale, ha posto al centro della sua azione il tema della riconciliazione, che non è uno schiaffo alle responsabilità e agli errori o ai torti di ciascuno. È cosa, canonisticamente oltre che umanamente, molto diversa: è il valore della redenzione che può avvicinare le parti in lotta, che può fare cessare gli abusi, che può migliorare i rei proteggendo le vittime e può onorare le vittime emendando i rei. Alla misericordia è dedicata la Bolla d’Indizione dell’ultimo Giubileo, “Misericordiae Vultus”; la vicinanza a chi è privato della libertà traspare in molte altre fonti ancora, dalle omelie di Santa Marta fino all’indulgenza plenaria del 27 Marzo. Anche lì: quanti equivoci! L’indulgenza non è un laisser faire/laisser passer.
È una questione impegnativa nella storia normativa della Chiesa: abbisogna delle opere “buone”, che certo riguardano la fede (tra le altre: il rosario, l’adorazione, la visita ai defunti), e necessita della confessione. Una confessione che viene intesa non come il rito cinematografico della frettolosa confidenza in parlatorio davanti a un prete impersonato dal comico di turno, ma come un esame onesto, radicale, netto, con se stessi. Se non mi riconcilio con me stesso, vedendo in me e da me il male che ho fatto, mai potrò sperar di ricevere indulgenza.
E, al di là della impegnativa formulazione canonica, che portò la Chiesa ad abusare delle indulgenze, anche in violazione della sua stessa dettagliata disciplina, un pontificato del genere in questo settore convince perché non agisce solo sul versante pastorale, ma ricerca senza toni monitori un’interlocuzione col mondo. La città di Dio avrà il Giudizio, ma il giudizio della città dell’uomo non può essere privo di equità. Il Francesco legislatore non è un abolizionista; ha abrogato l’ergastolo, ma ha inasprito e sin qui solo parzialmente rimodulato il quadro sanzionatorio di reati gravi per i quali la gerarchia era forse stata disattenta (i reati contro l’amministrazione, i reati in materia finanziaria, gli abusi commessi dai chierici a danno di minori). Al congresso internazionale dell’Associazione dei penalisti, Francesco ha addirittura espresso la necessità di codificare nuove ipotesi di reato negli ordinamenti civili, soprattutto in materia ambientale, ma ha parimenti detto che la grave sanzione di altri, molto più lievi, ostacola contemporaneamente la fede in Dio e la giustizia processuale.
Ai poteri mondani, ordinati secondo il principio della loro separazione, spetta oggi di comprendere la natura effettiva dell’offensività giuridica e soprattutto di riuscire a fare una preliminare opera di prestazioni sociali, pluralismo culturale e convivenza civile per prosciugare i vettori del crimine: l’alienazione, l’ingiustizia, la sofferenza, il privilegio.
Non sappiamo se all’infinito si uniscano la città di Dio e dell’uomo, se siano due rette parallele, due piani cartesiani o due cerchi destinati a “concludersi” – includersi d’una amorosa relazione vicendevole. Sentiamo però così forti le urla di quei sessantamila dannati che questo stesso frastuono, che non cogliamo appieno in terra, danna e lega noi e loro allo stesso penoso spavento di una tremenda pandemia. Nella quale l’impatto del virus non è forse nemmeno il problema o la misura più grave.
