Camus, il diritto, gli anticorpi

di Domenico Bilotti

Il rivoluzionario Victor Serge riteneva che una guerra potesse finire solo con la liberazione degli ostaggi. Per quanto sia sgradevole insistere sulle similitudini tra una pandemia e una guerra, ostaggi sul sentiero dell’emergenza ce ne sono ancora molti, troppi. Gli operatori del ramo medico che vivono distanti dalle loro famiglie per curarne altre; i lavoratori autonomi che sono in realtà i parasubordinati per eccellenza delle intemperie dell’economia e della finanzia; gli orfani che non hanno seppellito i padri; i bambini sottratti alle esperienze della socialità; i tempi discontinui e ammorbanti del precariato; le donne murate vive in abitazioni dell’orrore domestico. Sotto i nostri piccoli occhi si consuma una grande guerra egemonica tra i potenti della Terra, perché l’epidemia, come tutti i fatti socialmente rilevanti, diventa il terreno per misurare le forze. La calcolata temperanza del governo cinese, dopo i mesi del silenzio e delle voci disordinate, è perfettamente speculare alla caotica virulenza degli Stati Uniti, schiacciati da una percentuale di contagi senza paragoni in tutto il pianeta. 

L’Italia si affaccia a una timida riapertura, dove stanno alla pari i comportamenti compulsivi di frenesia e liberazione e le difficoltà concrete e timorose di chi ogni giorno tasta palmo a palmo il suo spazio sempre più piccolo. 

Ben venga allora l’iniziativa degli editori Bompiani e Giunti che ripubblicano gratuitamente il raccontino di Camus “Esortazione ai medici della peste”. La peste dentro, non il bubbone; la febbre addosso, non quella degli strumenti di rilevazione; il soffocamento che non prende il respiro, ma che il respiro umano si è già preso, mangiato, soggiogato. Lo scrittore francese esordisce con rabbia: “i buoni autori non sanno se la peste sia contagiosa”. Chi può dire se e come avvenga un contagio? Cosa lo favorisce? Che trecento fedeli si accalchino sotto un’icona o che nell’indotto di fabbrica interi e interi stabilimenti non siano mai chiusi? Ecco che lo scrittore si mette a consigliare direttamente i medici che saranno nella trincea virologica. Lo fa con un’alternanza di immagini e commenti di una freschezza impressionante: ci sono casi in cui la voce narrante parla con la boria sentenziosa dei professionisti della morale pubblica e casi in cui diventa il registratore dello sgomento collettivo. “Non visitate inoltre i pazienti quando siete a digiuno. Non reggereste. Né mangiate troppo, però. Poiché soccombereste”. La mattanza di un’epidemia (o di una quarantena) non si combatte se non hai una casa dove poter essere trattenuto. Se si ha la bocca troppo piena, il minimo contatto con la sofferenza altrui stomaca e repelle, fa sembrare il male l’appendice sgradevole di un quadro finto. “Affinché il corpo sconfigga l’infezione occorre che l’animo sia saldo”, ma dove sta la saldezza d’animo, la speranza contro la speranza di cui parlava Paolo? Allora uomini spaventati incoronano la tecnica di turno non ad ausilio del bene, ma a unità di misura del giusto. “Voi, medici della peste, dovete fortificarvi contro l’idea della morte e conciliarvi con essa”: la morte non può essere espulsa dalla vita; è l’unica cosa che per certo le appartiene. Negarla è menzogna, idolatrarla non la combatte. Fermatevi, ma fermiamoci tutti, quando il tempo ci costringe a rallentare il passo, a recuperare la cura degli altri, l’umanità del mondo, la mitezza nei comportamenti umani e relazionali, l’attenzione alla gentilezza, all’educazione come metro di rispetto e non come “educazione civile” del conformismo pugnalatore. La peste “uccise Pericle, il quale rivendicava unico merito di non aver fatto vestire a lutto alcun cittadino”: no, non si può fare come se nulla fosse, e il compito possibile, l’unico compito possibile per gli argomenti specialistici del diritto, è capire cosa dover (tentare di) cambiare. 

Le altre celebri immagini manzoniane di pestilenza hanno indotto qualcuno a simulare un’idea sbagliata della provvidenza: una pioggia scrosciante che lava la città. Solo che quella burrasca non è l’istante, non è la bacchetta magica senza impegno, senza socialità, senza responsabilità e libertà. È un percorso che dura, è il tempo di allagare le topaie e di sciacquare i corpi. 

Ci avvisa, Camus, di allenarci, si, certo, alle “sofferenze”, ma di tenere a banda anche le “insofferenze”. Mai sentirsi sempre e solo solisti, mai pensare che il mondo sia in se stessi, e tutto l’altrove possa indifferentemente perire: quando vedremo il volto dell’Altro non avremo nulla da dirgli, altrimenti. E l’afasia è la peggior alienazione. “Verrà il giorno in cui vorrete gridare il vostro orrore di fronte alla paura e al dolore di tutti”. Quel giorno Camus finirà i rimedi da consigliarci. Se non la compassione del tempo, quella che è “sorella dell’ignoranza”: il non sapere, il vagare a occhi chiusi tra macerie che cadono è un esercizio pericoloso. Al confronto, persino dalla peste ci si può salvare. Il vuoto, no, il vuoto è altra cosa. Possiamo solo riempirci di umanissimi anticorpi. 

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