di Domenico Bilotti
Ha fatto molto rumore l’uccisione di un’elefantessa incinta, avvenuta in India col velenoso dono di un ananas colmo di petardi. Le reazioni più scomposte sembrano, come spesso capita nella veloce comunicazione disinformante e disaggregante della Rete, le uniche davvero irricevibili. Non possiamo condividere i baffetti arricciati di chi fa spallucce e schernisce l’indignazione sottolineando che questo sdegno non sempre viene a galla quando a morire, e più atrocemente, sono esseri umani. Se c’è sempre un valore “n+1” per cui è più giusto scegliersi una causa e non un’altra, non si va avanti di un passo. E francamente hanno lasciato di stucco i commenti di chi ha invitato il genere umano a un’apocalittica estinzione. Se bastasse la crudeltà a estinguerci, dovremmo aver già sistemato la pratica da tempo (e vero è che molto ci stiamo lavorando, col tipo di scenari interni e globali che andiamo costruendo).
Dal punto di vista della psicologia giuridica, che esattamente come la psicologia medica ha tanti meriti ma rischia poi di mettersi a servizio del padrone che voleva combattere, gli elementi esacerbanti della vicenda sembrano essenzialmente due. Il primo, più truce, lampante, afflittivo, consiste nella morte cruenta di una creatura che ne ospita e ne ha nutrito e ne curerà un’altra. Una sorta di atto omicidiario stolto e prevaricatore contro la vita presente e quella futura. E c’è l’ulteriore elemento di una morte somministrata ormai sempre di più a distanza di sicurezza tra la vittima e il carnefice, allungando gli spazi, azzerando i contatti e in definitiva esasperando la disparità di forze in campo. Le nostre guerre silenti di armi chimiche (quelle trovate e quelle non trovate mai), di droni con licenza di uccidere, di epidemie, di carestie, di siccità, non hanno più molto d’umano, nonostante la guerra effettivamente mai abbia brillato per l’umanità. Legiferare la guerra era anzi il modo – l’unico – di agirla nei vincoli di fondo dell’esperienza umana, rifiutando mano a mano lo stupro di guerra (che ancora avviene), la tortura dei prigionieri di guerra (che ancora avviene), l’arbitrarietà della dichiarazione di guerra (che si realizza meno spesso del passato, ma col sospetto che ciò accada perché la nostra definizione giuridica della guerra è troppo poco per tutto il sangue che scorre al mondo).
Quell’elefantino che non verrà alla luce, che è finito scagliato in pezzi di carne marcia e scotta per la flora di una palude fluviale, è in fondo l’ineluttabile immagine di sconfitta del male evidente, deliberato, non ricercato, nemmanco provocato. È l’innocenza strappata dal letto della cura, della generazione e della procreazione, verso il baratro di un nutrimento avvelenato. Anche sui cd. “diritti animali” siamo sconsolatamente indietro e ciò non riguarda una fraintesa antropologia chic che antepone una nozione falsa di natura al vissuto concreto degli umani. Proprio il contrario: aver cura dell’ambiente e di chi e cosa lo abita è una pratica, esigibile, sostanziale, clausola di assicurazione sulla specie. Nel mondo, molta parte dei fenomeni virali si diffonde tramite la violazione delle minime norme igienico-alimentari e alcune culture danno per pregiate leccornie pietanze preparate con squallidi sotterfugi di caccia (il cervello della scimmia, le interiora della balena, i pipistrelli, gli insetti, il contrabbando di carni di piccoli e grandi mammiferi).Ciò ci schifa e invero dovremmo saper anche formulare un giudizio di schifezza su noi stessi: la produzione intensiva nel bestiame a fini alimentari o di vestiario ha quasi completamente snaturato una delle industrie fondamentali della storia umana. Bisogna “bombare” gli animali: ne servono di più, di più grassi, di più sfruttabili; magari innaturalmente nutriti mangiando preparati a base dei loro stessi simili già morti.
Il tema della nascita non portata a compimento per umana crudeltà – non sofferenza, non malattia, non etica, ma inganno – e quello della violenza esercitata in modo mascherato e ingannevole si tengono giunti, perché sono le facce di una stessa medaglia.
Non ricordo più per quale ragione si dicesse che gli elefanti dovrebbero avere una grande memoria. Potrebbe esser falso. Chissà. Certo, la memoria è forza, dal punto di vista della linguistica, della neuroscienza, della logistica, e anche della politica, del diritto e della socialità. Un Paese senza memoria è così pronto a metter la testa sotto la morsa zannuta di un pachiderma molto più grande di qualsiasi piccolo elefante mai nato: l’infamia della prevaricazione, della negazione, dell’abuso.