Il dialogo come metodo nelle relazioni tra lo Stato e le confessioni religiose

Intervista al Prof. Pierluigi Consorti, ordinario di Diritto e religione all’Università di Pisa

di Luigi Mariano Guzzo

Pubblicata su Il Regno, 8 maggio 2020

Lo scorso martedì 5 maggio si è tenuto un incontro di portata storica. A riunirsi presso il Ministero dell’Interno, in video conferenza, i rappresentanti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica, anche di quelle che non hanno stipulato intesa con lo Stato italiano, ai sensi dell’articolo 8 comma 3 della Costituzione, per avviare la predisposizione di un protocollo sulle pratiche di culto, in relazione alle misure anti-contagio da Covid-19, in questa “fase 2”.  Il tavolo di lavoro, voluto dal capo del Dipartimento Libertà civili e Immigrazione Michele di Bari, ha visto la partecipazione, come consulenti, dei professori Pierluigi Consorti, ordinario di Diritto e religione all’Università di Pisa, e Paolo Naso, docente di Scienza politica all’Università “La Sapienza” di Roma. 

            Ne discutiamo insieme al Consorti, anche presidente dell’Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (Adec) e coordinatore del gruppo di ricerca “DiReSoM”, che ha attivato il primo portale internet su religioni, diritto e Coronavirus (www.diresom.net), proponendo, nei giorni scorsi, il documento “Per una cauta ripresa in sicurezza delle celebrazioni religiose” (leggi qui). 

            Le confessioni religiose si incontrano al Viminale per definire una strategia comune. Si può parlare di un’occasione “storica”, che da tempo veniva auspicata come ipotesi per perseguire accordi plurimi con tutte le confessioni? Una negoziazione, in altri termini, che, pur nella specifica identità di ciascuna confessione, comporta che insieme pongano attenzione all’interesse generale, al contempo individuale e sociale, alla salute.

            Secondo me, sì. Perché per la prima volta si sono seduti intorno ad un tavolo i rappresentanti di molte confessioni religiose presenti in Italia, a prescindere che abbiano o meno una intesa con lo Stato, tra le quali l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucooii), la Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis), la Grande moschea di Roma, i valdometodisti, gli ebrei, gli avventisti, le Assemblee di Dio in Italia (Adi), i buddisti, gli induisti, la Soka Gakkai, gli ortodossi greci, gli ortodossi rumeni, i mormoni, gli anglicani, la comunità Baha’i, i sikh, la Consulta evangelica. Queste confessioni hanno avviato un dialogo costruttivo per trovare soluzioni a problemi comuni, tenendo conto delle singole specificità, nel rispetto del principio di precauzione. 

            Insomma, il dialogo come metodo nella regolamentazione del fattore religioso, al di là della posizione formale di queste confessioni rispetto all’ordinamento dello Stato.

            Esattamente. E le stesse confessioni hanno avuto la possibilità di notare come tale metodo sia fruttuoso. Tant’è che sperano (e lo speriamo pure noi!) che tavoli di questo tipo possano essere replicati anche una volta passata l’emergenza sanitaria. La sfida quindi è quella di utilizzare questo metodo anche oltre l’emergenza. Le polemiche di questi giorni fra la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e il Governo, e la loro strumentalizzazione politica, hanno portato indietro il tema delle relazioni verticali fra Stato e Chiesa di cento anni. Sembra che le esigenze spirituali si condensano tutte attorno a “Messa sì, Messa no”, e a un malinteso riferimento concordatario che semplicemente disconosce la centralità civile della libertà religiosa di tutti.

            Mi sembra che ciò segni il passaggio da una politica concordataria bilaterale ad una politica di concertazione “multilaterale”, nella disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni religiose.

            Alle fine avevamo bisogno del Coronavirus per riflettere seriamente sul meccanismo della bilateralità pattizia, sul Concordato, sulle intese e su come la bilateralità, allo stato dei fatti, escluda larga parte dei soggetti interessati. Credo che il futuro della politica ecclesiastica sia rappresentato da un metodo dialogico con tutte le confessioni religiose. Si tratta di esperienze che riflettono la centralità del dialogo religioso, inteso come incontro di soggetti a vario titolo interessati a condividere le regole per lo svolgimento delle pratiche connesse all’esercizio dei diritti di libertà religiosa (e anche areligiosa, ma connessa all’etica spirituale individuale).  

            Nel suo volume “Diritto e religione. Basi e prospettive” (Laterza, 2020) Lei parla di una dimensione “orizzontale” della libertà di religione.

            Quando parlo di dimensione “orizzontale” intendo sostenere che la tutela della libertà di religione, da parte dei pubblici poteri, deve partire dal garantire, innanzitutto, le forme di spiritualità che si sviluppano dal “basso”, cioè nella vita concreta delle donne e degli uomini. Non è sufficiente e neanche necessario prendere impegni bilaterali con le singole confessioni religiose affinché la Repubblica tuteli in maniera effettiva il principio costituzionale alla libertà di culto. Il tavolo di lavoro istituito presso il Viminale lo dimostra: la libertà religiosa non è questione di bilateralità pattizia.

            Quali i contenuti principali dell’incontro?

            Le questioni centrali sulle quali si è discusso sono state due: la ripresa delle celebrazioni collettive e gli spostamenti dei ministri di culto in città o regioni diverse da quella di residenza. Forse può aiutare l’utilizzo di una “analogia interpretativa” delle singole soluzioni. Mi sembra interessante riprendere, sul punto, l’esempio che ha proposto Paolo Naso: se oggi un ingegnere altamente specializzato è autorizzato a spostarsi nella sede della sua azienda anche viaggiando fuori regione, allora perché non potrebbe farlo il ministro di culto? A partire da tali riflessioni, sono stati sollevati problemi di contorno come, ad esempio lo spostamento di persone verso città o regioni diverse dalla propria per esigenze di culto, in quanto le minoranze sono meno ramificate territorialmente. Oppure, pensiamo anche alla qualifica di “ministro di culto” per le confessioni che non hanno intesa. Sono emerse, ancora, le questioni circa la necessità di precisare la legittimità dell’uscita per “motivi di culto”, il tema della sanificazione dei locali, la certezza delle forme di “diaconia comunitaria” e l’assistenza spirituale domiciliare. 

            E per quanto riguarda le specificità delle singole confessioni religiose?

            I musulmani, ad esempio, considerata la specificità della loro forma rituale (abluzioni, prostrazioni, ambienti chiusi con tappeti, …), non intendono per il momento utilizzare i luoghi chiusi, ma avvertono l’esigenza di regolare in qualche modo l’evento della fine del Ramadan (24 maggio), che è considerata una festa collettiva di grande importanza. L’Ucooii segnala la questione delle sepolture e della qualificazione giuridica dei loro effettivi luoghi di culto, che non sempre sono urbanisticamente tali, sotto il profilo formale. Per gli ebrei si rende necessario un chiarimento circa la misura del distanziamento interpersonale, atteso che per loro la celebrazione del culto può avvenire solo alla presenza di almeno dieci persone. Mentre le comunità evangeliche specificano l’opportunità di garantire la legittimità degli spostamenti necessari per le forme della «diaconia comunitaria», cioè gli spostamenti per portare aiuti alle famiglie in difficoltà.

            Nel frattempo, viene siglato protocollo d’intesa siglato tra il Governo italiano e la Cei per riprendere le messe già dal 18 maggio. 

            La Chiesa cattolica ha deciso di seguire una strada diversa, entrando in dialogo con il Governo italiano senza confrontarsi con le altre confessioni religiose. E’ stata comunque una scelta dei vescovi italiani. Non nascondo che le altre confessioni religiose hanno espresso qualche malumore verso la corsia quasi preferenziale riconosciuta alla Chiesa cattolica, ma lo spirito collaborativo ha portato a superare tali difficoltà, anche se in ballo vi è la laicità dello Stato. D’altra parte, il ventaglio di argomenti, che ho presentato nelle risposte precedenti, rende evidente di come non si possa correre il rischio di appiattire le questioni modellandole sulle esigenze della Chiesa cattolica o estendendole a partire da queste. Comunque sia, il protocollo, da un lato, segue una logica di confronto subordinata alle regole sanitarie, e questo è un bene. Ma dall’altro si poteva stare più attenti, soprattutto da parte dei vescovi, ad evitare una commistione tra sacro e profano, che mi pare purtroppo evidente.

            Il Parlamento ha anche approvato un emendamento dell’onorevole Stefano Ceccanti sulla necessità di subordinare la celebrazione dei culti all’adozione di protocolli sanitari con le confessioni religiose. Che pensa a riguardo?

            Certamente, un’interlocuzione bilaterale è meglio di nessuna interlocuzione, e in questo senso può essere letto con favore l’emendamento presentato dall’On. Ceccanti, e condiviso dal Governo, che inserisce una procedura pattizia per la progressiva apertura delle celebrazioni religiose di tutti i culti subordinandola all’adozione di protocolli sanitari «adottati di intesa con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose diverse dalla cattolica». Purché sia considerato anch’esso temporaneo e non indicativo di un percorso istituzionale di dialogo con le comunità religiose, necessariamente ed esclusivamente incanalato nelle forme della bilateralità pattizia,

            Il dibattito pubblico si concentra per lo più sul bilanciamento tra principi fondamentali. In particolare, ci si chiede: può la libertà di religione essere limitata per motivi sanitari?

            Dal versante delle confessioni religiose che hanno partecipato all’incontro, tutti hanno convenuto, sulla necessità di fare prevalere le cautele contro il contagio sulle esigenze di culto. Tant’è che, a differenza della Chiesa cattolica, quasi tutte le altre confessioni religiose hanno chiuso i luoghi di culto, nonostante le disposizioni governative, com’è noto, li lasciassero aperti per la preghiera individuale. In realtà qualche malumore è stato espresso verso la corsia quasi preferenziale riconosciuta alla Chiesa cattolica, ma in generale si concorda sull’importanza di regole comuni e soprattutto su un principio cardine: ossia la salute viene prima di tutto. E’ peraltro interessante sottolineare che pur nelle differenze culturali e religiose si sia tutti d’accordo sul che cosa debba intendersi per salute. E’ un esempio importante di laicità interculturale e interreligiosa.

            Un ulteriore aspetto da sottolineare è l’utilità della ricerca scientifica. Lei è stato chiamato come consulente al Ministero in quanto si tratta di temi che Lei affronta, studia e analizza da oltre trent’anni, perché insegna Diritto ecclesiastico e canonico. Materie, però, in merito alle quali si discute molto circa la loro centralità nella formazione del giurista e, quindi, nei programmi delle lauree in Giurisprudenza. 

            In effetti, la prima sensazione che ho avvertito seduto a questo tavolo di lavoro è stata proprio l’utilità della ricerca scientifica, che si misura sul piano pratico e fattuale. Con il gruppo di ricerca “DiReSoM”, che coordino, quando abbiamo deciso di scrivere il “Position Paper” e di diffonderlo non abbiamo avuto nessun intento di metterci in vetrina o di fare gli accademici sofisticati. Abbiamo semplicemente individuato poche cose di base comuni alla nostra sensibilità scientifica, e le abbiamo messo a disposizione in un tempo così difficile, partendo dalla nostra esperienza di ricercatori e di professori, che producono studi di qualità. D’altronde, i nostri insegnamenti rimangono fondamentali nei corsi di laurea in Giurisprudenza, per gli operatori del diritto che si muovono all’interno di un contesto sociale ed economico caratterizzato da una pluralità di fedi, di religione e di cultura. E di ciò non si può non tenere conto nei dibattiti che riguardano la formazione del giurista.

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